Percorsi interculturali: costruire dialoghi tra popoli in carcere e nel territorio
Progetto di Cooperativa Di Vittorio, Assocazione Studi Umanistici Rogersiani e Istituto dell'Approccio Centrato sulla Persona sovvenzionato con 8x1000 Tavola Valdese
Progetto di Cooperativa Di Vittorio, Assocazione Studi Umanistici Rogersiani e Istituto dell'Approccio Centrato sulla Persona sovvenzionato con 8x1000 Tavola Valdese
Introduzione
Il carcere è un luogo di incontro di tutte le culture del mondo.
In pochi metri quadrati convivono persone di qualsiasi ceto sociale e gruppo etnico. L'ambiente penitenziario è un concentrato di emarginazione sociale estremamente variegato nel suo insieme. Tossicodipendenti, stranieri (clandestini) e analfabeti. Le problematicità relazionali e comunicative in carcere sono molteplici. In carcere si sentono parlare le più variegate lingue del mondo (oltre all'italiano, l'arabo, l'albanese, il cinese, l'inglese, il russo, lo spagnolo, il greco, il tedesco, il francese, il rumeno). Parole, accenti, cadenze a noi sconosciute.
Malgrado tutto ciò, in carcere si trova comunque il modo per comunicare. Nella nostra esperienza penitenziaria notiamo che se lasci in una cella un gruppo di persone detenute, in pochi minuti esse iniziano a parlare. I detenuti non stanno mai zitti, parlano, parlano e parlano: il carcere limita il corpo, privandolo della libertà, ma non limita di muovere la lingua. Neanche all'interno di un'istituzione totale, il controllo sociale non riesce ad essere totalitario.
Ed è proprio in tutto questo parlare che sorge una domanda: cosa si diranno mai i detenuti quando sono tra loro? Che tipo di comunicazione viene esercitata in privato dalle persone costrette nelle mura penitenziarie?
Secondo la letteratura internazionale il carcere è il luogo elettivo per trasmettere conoscenze antisociali. Attraverso la frequentazione di chi ha fatto del crimine il suo stile di vita, in prigione si impara a commettere rapine, a uccidere o a spacciare. La trasmissione delle conoscenze devianti non si limita al “come fare”, ma anche a “chi frequentare” e la patria galera diventa il tirocinio per una carriera criminale di “successo”.
In termini valoriali, in carcere si impara a distorcere il senso degli eventi: secondo la prospettiva deviante, il poliziotto o il giudice (e con loro, tutti gli operatori che lavorano per lo Stato) sono il nemico numero uno. L'arresto è considerato come un incidente che interrompe le attività produttive del malavitoso, alla stregua di una malattia che impedisce all'onesto lavoratore di recarsi in ufficio o in fabbrica.
Del resto, la teoria sottoculturale dimostra che la condivisione dei valori antisociali è il mezzo di sviluppo psicoaffettivo per le persone che non riescono ad inserirsi nella così detta società civile: laddove l'individuo si sente rifiutato, trova nelle persone altrettanto rifiutate le medesime difficoltà, sentendosi così accettato da un gruppo intero, che finisce per creare una vera e propria cultura da condividere.
Sottocultura e proselitismo islamico
Quando l'11 settembre 2001 guardavamo, increduli, le persone che si gettavano dalle torre gemelle alla ricerca estrema della salvezza, non potevamo ancora immaginare quanto quella data cambiasse il corso della storia.
Oggi sappiamo che la diffusione delle nozioni sottoculturali coinvolge anche la materia religiosa. Il carcere è riconosciuto come il luogo ad altissimo rischio di proselitismo islamico. A fronte delle fragilità identitarie della persona costretta a vivere in carcere, l'Islam è la risposta ideale per trovare nuovi obiettivi esistenziali. Attraverso la lotta religiosa, il neofita islamico non trova solo un nemico da combattere, ma anche un amico spirituale a cui affidare un destino personale altrimenti inesistente.
Certamente il conflitto religioso e il conseguente pericolo degli attentati sono materia che attiene alla sicurezza. Operazioni di intelligence, controlli sul territorio da parte delle forze dell'ordine, provvedimenti strutturali per limitare gli effetti omicidari degli attentati: tutto ciò è sicuramente necessario. D'altra parte, a fronte di tutte queste azioni, ancora altre sfide rimangono aperte: per rispondere alla genesi del proselitismo islamico, dobbiamo mettere in gioco strumenti idonei a rispondere alla divulgazione sottoculturale delle credenze religiose più distorte.
Da tutte queste considerazioni nasce il progetto “Percorsi interculturali: costruire dialoghi tra popoli in carcere e nel territorio” sovvenzionato con fondi 8x1000 della Tavola Valdese.